Alle spalle della chiesa di Santa Marina si erge il Monte della Noce, che deve il suo nome non al noto albero, bensì al sostantivo noctis, il genitivo della parola latina nox, che in latino significa “notte”. Questa piccola zona pianeggiante doveva rappresentare una parte importante dell’antico abitato di Ardea.
In quest’area, nel VI secolo a.C. , sorgeva uno dei più importanti santuari del Lativm Vetus. Il tempio del Monte della Noce, scoperto nel 1981, permise di ricostruire, per la prima volta, la pianta di un tempio rutulo di grandi dimensioni (34×21 m, 714 m² di superficie), uno dei più grandi templi arcaici del Lazio.
Il suo arco di vita va dal VI alla prima metà del I sec. a.c., e si presenta così diviso: il pronao (l’atrio con colonne antistante la cella della divinità) con otto colonne su due file; la parte posteriore, formata da una cella centrale e due laterali, che accoglieva le statue delle divinità. Costruito in mattoni, aveva un’intelaiatura in legno e colonne lignee ed era riccamente ornato con lastre di terracotta a colori vivaci: rosso, nero e bianco avorio, con elementi decorativi simili ai materiali negli altri due templi (quello di Giunone sull’acropoli e il tempio dell’area del Casarinaccio, la cui divinità è incerta).
Il tempio dominò il Monte della Noce per oltre cinquecento anni, e pertanto la manutenzione fu effettuata con regolarità e molta cura, specialmente considerando la facile degradabilità dei materiali di legno di cui era composta la struttura interna. Le terrecotte colorate che decoravano e proteggevano le travi, i travicelli e le assi del tetto venivano rapidamente sostituite in caso di rottura.
Gli archeologi hanno rinvenuto anche un ambiente ipogeo riempito di oggetti rotti o ormai inutilizzabili, ma anche offerte votive dedicate alle divinità del luogo, segno che gli scarti venivano accumulati all’interno della stessa area sacra, e lo stesso scompartimento sotterraneo era adibito all’immagazzinamento degli ex-voto.
Poco meno di duemila anni fa, poi, vi fu una radicale demolizione del tempio, le fosse di fondazione vennero riempite di frammenti ceramici per livellare il terreno in superficie, e i resti del tempio ricoperti di terra.
Nel XX secolo l’aratro dei contadini in quella zona riportava continuamente alla luce reperti del passato, come statuette, falli, lucerne e altri reperti in ceramica. Si decise così di scavare al di sotto di un affiorante blocco di tufo, permettendo così agli archeologi di fare la grande scoperta.
Gli scavi effettuati nelle fasi precedenti la costruzione del tempio hanno messo in luce i resti di diverse capanne riferibili ad un antico centro abitato (posto in posizione sopraelevata rispetto alla valle, grazie all’altura) formatosi a partire dal IX secolo a.C. , certamente di grande importanza nella storia degli sviluppi urbanistici dell’area.
Sugli strati archeologici, le capanne sono state riconosciute per via della presenza di buchi per i pali di sostegno e di canalette per lo scolo dell’acqua; avevano forma ovale o circolare.
Una delle capanne merita menzione a parte, in quanto posta in una posizione di rilievo rispetto alle altre, ovvero sul punto più alto del Colle della Noce, esattamente al centro della collinetta; era inoltre di dimensioni notevoli, raggiungendo un diametro di circa dieci metri.
A questa se ne connetteva un’altra, divisa in tre parti da due file di pali e dotata di ben due ingressi (mentre le altre, normalmente, ne contavano uno); questo “sistema” di capanne mantenne il proprio orientamento nel tempo, mentre le altre mostrano segni di abbandono e rifacimenti riferibili alle fasi di vita del villaggio.
L’importanza della grande capanna al centro del villaggio e di quella ad essa collegata è sottolineata dalla costruzione del tempio del VI secolo a.C. (di cui sopra) esattamente in quel punto; la memoria delle due capanne venne dunque mantenuta al centro dell’area sacra, al di sotto del pavimento. L’orientamento del tempio è, inoltre, lo stesso delle capanne: esso volgeva al punto dell’orizzonte dove il sole, ogni anno, tramonta, si ferma e torna indietro: il solstizio d’inverno.
Molteplici sono anche le sepolture a fossa scoperte durante gli scavi, per la quasi totalità di bambini, ma fra le eccezioni una merita menzione a parte: si tratta di una tomba a fossa databile all’VIII secolo a.C. , contenente il corpo di una donna accompagnata da un corredo particolarmente ricco, che contava: gioielli d’oro, d’argento, di ambra e di pasta vitrea; vasi di terracotta e di bronzo, pendagli, anelli, spille di bronzo con rivestimenti di osso, ambra o avorio; due fuseruole ed un fuso per filare la lana; due coltelli e uno spiedo. La donna, inoltre, era stata deposta con un abito da cerimonia.
L’identità della defunta è ignota (gli archeologi che la scoprirono la chiamarono “principessa di Ardea”), ma certamente doveva ricoprire un ruolo importante in quella società, ed è verosimile un collegamento con la grande capanna di cui sopra.
Fonti:
- http://www.viviardea.it
- AULETTA, ZUCCARELLO 2009 “Ardea, la città dei Rutuli”
- DI MARIO 2007 “Ardea, la terra dei Rutuli tra mito e archeologia: alle radici della romanità. Nuovi dati dai recenti scavi archeologici”